Chi scorgerebbe una potenziale “insidia” dietro una simile manifestazione di compiacenza?
A tutti gli effetti però, questo semplice riconoscimento può indurre un certo tipo di concezione delle nostre abilità. Di per sé, non è certo questa esternazione a determinare un certo tipo di credenza, tuttavia se a tali esplicitazioni verbali fanno seguito rinforzi i quali implicitamente sostengono che i successi sono frutto di bravura, allora potrebbero insidiarsi grosse delusioni, specie in caso di inevitabili insuccessi.
I modi in cui le perone di riferimento/accudimento (i caregiver) si approcciano ai bambini, nel tempo plasmano se non creano, le loro concezioni interne; si tratta delle cosiddette teorie implicite dell’intelligenza ben descritte dal modello di Carol Dweck. Il termine “teoria implicita”, fa riferimento all’idea profonda, spesso inconscia, che le persone possiedono rispetto ad aspetti di sé stessi.
La proposta dell’autrice teorizza come le persone si distinguano in base a 2 tipologie di teorie implicite possedute, gli entitari e gli incrementali: i primi sono portati ad avere una concezione di fissità, a ritenere che le proprie condizioni e/o abilità siano immutabili in quanto prefissate; i secondi prevedono invece una progressione rispetto alle proprie condizioni.
Gli entitari prestano attenzione a non imbattersi in situazioni che potrebbero metterli in difficoltà, possono evitare persone o compiti che metterebbero in luce i loro limiti.
Gli incrementali, dal canto loro, sono più inclini ad espandere le proprie conoscenze, orientati al miglioramento, danno un valore diverso alle valutazioni.
Per un entitario una valutazione rappresenta giudizio su di Sé, assume la forma di una misura delle proprie abilità. L’eventuale giudizio, per un incrementale, riguarda la prestazione, non la persona ed assume ruolo orientativo.
Le due tipologie descritte si dividono anche per quanto concerne il vissuto emotivo: entitari ansiosi ed impauriti dal giudizio, spesso alle prese con la noia derivante dalla scelta di compiti ben noti ma che mettono al riparo dal fallimento; sull’altro versante, gli incrementali provano come tipica emozione la sfida, per cui affrontano il compito con l’intento di incrementare e/o migliorare le proprie competenze. L’entitario potrebbe dunque porre in essere strategie di evitamento, o rinegoziare in itinere dei propri obiettivi attraverso razionalizzazioni degne del noto racconto di Esopo. L’incrementale, reagisce ad un eventuale fallimento attribuendo lo stesso al non sufficiente impegno o alla scelta di strategie inadeguate ed in questo senso viene mantenuta la spinta motivazionale originaria.
Gli incrementali sono interessati alle novità, alle situazioni che posso consentire nuove acquisizioni, si ingegnano per superare l’ostacolo, gli entitari rifuggono da tutto ciò nel timore di fallire, “meglio poter dire di non aver provato, rispetto a conclamare un fallimento”.
Come accennato poc’anzi, è altresì possibile affermare che le 2 teorie possedute, abbiano la caratteristica di orientare rispetto agli obiettivi: avremo dunque obiettivi di prestazione per gli entitari ed obiettivi di padronanza per incrementali. La prima tipologia vede il focus puramente sull’esito, sul mostrare successo evitando il fallimento, la seconda si incentra sul padroneggiare un dominio che può essere un’abilità, lo studio di una materia, suonare uno strumento musicale, ecc…, il focus è su quanto si sta facendo come soggetto che impara e vive le esperienze.
Chi possiede una teoria entitaria ritiene che le sue dotazioni siano fornite dalla natura e di non aver margine di azione su di esse, nella migliore delle ipotesi, si orienterà verso obiettivi di prestazione, compiti noti e raggiungibili capaci confermare l’immagine che ha di Sé.
Coloro i quali appartengano alla categoria degli incrementali, saranno inclini a pensare che c’è sempre da imparare e si porranno obiettivi allo scopo di padroneggiare la situazione. Mentre per chi ha obiettivi di padronanza è l’esito della prestazione ad informarlo in merito al proprio Sé, chi ha obiettivi di padronanza non misura la propria autodefinizione in base all’esito del compito.
Mueller e Dweck, nel 1998, hanno condotto un esplicativo esperimento volto a verificare e spiegare la dinamica nella formazione delle teorie implicite e gli esiti che le stesse avevano su persone coinvolte in attività.
L’esperimento ha coinvolto un centinaio di bambini di 5 elementare ed era diviso in 3 step.
Nella prima fase i partecipanti sono stati invitati alla compilazione di alcuni test intellettivi adatti alla loro età. La sperimentatrice ha valutato subito i test dicendo a tutti ragazzi di aver ottenuto un buon punteggio pari ad 8/10.
La seconda fase coincide con la creazione di 3 gruppi; la sperimentatrice si rivolse ad alcuni bambini chiarendo loro che erano stati molto “bravi” (creando così un gruppo abile/entitario), ad altri è stato fatto notare come, l’impegno e la perseveranza, abbiano concorso nell’ottimo risultato (gruppo impegno/incrementale), infine ad un terzo gruppo non ricevette nessuna indicazione ulteriore (gruppo di controllo).
La terza fase vide nuovamente tutti i gruppi impegnati ancora con i test intellettivi, ma questa volta in un compito adatto a ragazzi molto più grandi (quindi oggettivamente difficile); l’adozione di tale compito ne ha determinato l’esito infausto per tutti i partecipanti. Dopo la correzione, la sperimentatrice annunciò che questa volta l’esito era stato decisamente più scadente rispetto al precedente, infine ha invitato i partecipanti a compilare nuovamente delle altre matrici (questa volta adatte all’età, ovvero di difficoltà parallela a quelle somministrate in prima prova).
I risultati del confronto tra le 2 prove di analoga difficoltà (ovvero quelli affrontati nella “fase 1” e quelli della “fase 3”) fecero emergere andamenti specifici nei tre gruppi: il gruppo “impegno/incrementale” ottenne risultati superiori nell’ultima prova rispetto alla prima, il gruppo “abile/entitario”, peggiorò nella terza prova, il gruppo di controllo (quello che non ha ricevuto indicazioni), replicò la prestazione ottenuta nella prima prova. Ciò che si evidenzia è un cambiamento, successivo all’ aver sperimentato il fallimento. È possibile osservare un cambiamento prestazionale nei 2 gruppi che hanno avuto feedback infatti, “abile” cala di prestazione ed “impegno” offre invece risultati migliori. Successive interviste hanno permesso di chiarire che, il gruppo che era stato indotto ad investire in termini entitari (“sei bravo!”), ha attribuito alla propria mancanza di abilità il fallimento nel secondo compito; ha sviluppato timori di giudizio rappresentati dalla paura di mostrarsi incapaci, mostrando una concezione della propria intelligenza come innata ed immutabile. Stimoli che inneggiano all’impegno, sono invece forieri dello sviluppo di una teoria incrementale la quale, come evidenziato da questo breve esperimento, ha garantito un incremento prestazionale e protetto da emozioni negative.
È dunque evidente il contributo pedagogico di tali concezioni, indirizzare i bambini verso la formazione di una concezione incrementale, pone le basi per crescere una persona motivata e curiosa. Allo stesso tempo mette a riparo dagli inevitabili fallimenti o difficoltà che normalmente si parano sul cammino di ognuno di noi.
Il tipo di concezione incrementale, si adatta ad ogni campo, da quello scolastico a quello, sportivo, musicale, lavorativo, è un ottimo vitaminico in favore della resilienza.
Ancora certi di limitarsi ad elogiare attraverso un “bravo”?